Fossili senza freni: un nuovo studio mette sotto accusa i governi

Fossili senza freni: un nuovo studio mette sotto accusa i governi


A dieci anni dalla firma dell’Accordo di Parigi, il mondo continua a deviare dalla rotta climatica concordata. Il Production Gap Report 2025, pubblicato dallo Stockholm Environment Institute, Climate Analytics e International Institute for Sustainable Development, rivela un quadro allarmante: entro il 2030, i piani nazionali prevedono di produrre più del doppio di carbone, petrolio e gas rispetto ai livelli compatibili con il limite di +1,5 °C, e circa il 77% in più rispetto allo scenario dei +2 °C.

Rispetto al rapporto del 2023, la situazione è addirittura peggiorata: il divario tra ciò che i governi intendono estrarre e ciò che il clima può sopportare è passato dal 110% al 120% per l’obiettivo di 1,5 °C.


Estrarre di più, nonostante tutto

Invece di rallentare, molti Paesi hanno deciso di aumentare ulteriormente la produzione: più carbone fino al 2035, più gas fino al 2050 e una crescita del petrolio almeno fino a metà secolo. Una direzione che contraddice non solo gli impegni assunti a Parigi e confermati alla COP28 di Dubai, ma anche le proiezioni dell’Agenzia internazionale per l’energia, secondo cui la domanda globale di combustibili fossili dovrebbe raggiungere il suo picco entro la fine di questo decennio.

Se questi piani verranno attuati, nel 2030 la produzione di carbone sarà cinque volte superiore al livello compatibile con 1,5 °C, il petrolio oltre del 30%, e il gas quasi del 100%.


I Paesi più responsabili

L’analisi riguarda venti Stati che insieme coprono circa l’80% della produzione mondiale di combustibili fossili: dagli Stati Uniti all’Arabia Saudita, passando per Cina, India, Russia e Brasile. Ben 17 Paesi su 20 intendono aumentare almeno una delle tre fonti fossili da qui al 2030. Undici di essi, tra cui USA, Russia e Nigeria, hanno persino alzato le proprie previsioni rispetto a due anni fa. Solo sei governi hanno elaborato strategie di riduzione coerenti con gli obiettivi di neutralità climatica.

Anche dove esistono promesse di “net zero”, i finanziamenti pubblici ai combustibili fossili restano elevati: sussidi diretti, agevolazioni fiscali, investimenti nelle compagnie statali e concessioni per nuove esplorazioni.


Il pericolo dei beni incagliati

Continuare a investire in infrastrutture fossili negli anni Venti comporta un rischio economico crescente: impianti e progetti che potrebbero diventare inutilizzabili prima ancora di ripagarsi, trasformandosi in asset bloccati. “Non è solo uno spreco di denaro pubblico, ma un peso umano e ambientale che grava sulle comunità più fragili”, spiega Neil Grant, ricercatore di Climate Analytics e coautore del rapporto.


Segnali positivi, ma ancora isolati

Qualche progresso esiste: la Cina ha già superato con largo anticipo il proprio obiettivo per le rinnovabili al 2030, il Brasile ha avviato un piano per accelerare la transizione energetica e la Colombia ha adottato una strategia per una “giusta transizione”. Tuttavia, questi esempi restano eccezioni in un panorama dominato dai fossili.

“Per mantenere viva la soglia di 1,5 °C servono tagli rapidi e coordinati a carbone, petrolio e gas, in un processo equo e centrato sulle persone”, sottolinea Emily Ghosh, direttrice del programma “Equitable Transitions” del SEI.

Anche Christiana Figueres, ex segretaria dell’UNFCCC, lancia un appello: “Le rinnovabili prenderanno inevitabilmente il sopravvento, ma serve coraggio politico e solidarietà globale per colmare il divario prima che sia troppo tardi”.

Con l’avvicinarsi della COP30, il messaggio del rapporto è inequivocabile: fermare nuove estrazioni, potenziare le energie pulite e ridurre la domanda di fossili. Continuare sulla strada attuale significa condannare il pianeta a un futuro di temperature fuori controllo e impatti climatici sempre più devastanti.


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